La poesia accade, come accade la vita. E accade di ritrovare, nella penombra di un cassetto, “i scarabòcc del tèmp ” che affiorano alla luce, dopo una gestazione pluriennale, come tracce indelebili di un mondo che il dialetto rende autentico. Lemmi, suoni, segreti e silenzi nati dall’humus della nostra terra, dalla nostra humanitas, dalla nostra humilitas. Umiltà che è adesione, a volte dolorosa, al sentire dei semplici ma anche riflessione di fede e preghiera. Il linguaggio si esprime in una sintassi che solo di rado si allontana dalla lingua parlata. La poesia è scritta per essere pronunciata, per diventare voce. Idioma naturale, il dialetto elimina il divario fra l’espressione lirica e il lessico quotidiano, si fa musica degli affetti. Note di un diario poetico che ripercorre luoghi e paesaggi familiari affollando lo spartito di presenze recuperate, fissate in fotogrammi dove il vissuto diviene appartenenza. E tuttavia il borgo esiste nell’ absentia, nella metafora, poiché l’universo dell’infanzia e dell’adolescenza è irripetibile se non nella percezione mesta di un addio, di un congedo dalla fugace bellezza di un “geranio ‘ntisichìt che ‘l smicia la riisilina smórta del puzulì defrónt”. Elegia del tempo andato e insieme vibrazione lirica nella potenza evocativa e nell’intima compresenza di chi non è più. Non di rado il verso si fa tenero, attraversato da un respiro delicato dalle ricorrenti assonanze. Ma non inganni il delizioso “sènte passà ‘n vènt fat de minóne” poiché l’eclettismo dell’ispirazione può portare su altri registri: dal canto di una ninna nanna al gemito doloroso di un mondo mortificato, toccato nel pudore della sua identità. Al capezzale del dialetto in agonia, negli umili umiliati, “chèi che i è deentàcc rós deanti al prét e a l’aocàt “, si coglie il brivido di una lacerante verità. Parole dolenti, che vengono dal di dentro e toccano la dimensione esistenziale. Tutto sembra finito. Le nonne cui hanno rapito le “litanie cantade ‘na vita entréga” non sanno più a chi raccontare le “storie de la stala”. Non è la nostalgia di piccoli mondi antichi che certo belli non erano – si pensi alla povertà offesa “per chei regài vilànc de stras e roba usàda” – ma la rivolta per il modo d’essere d’oggi, diméntico di parole, gesti e pensieri che sono parte delle nostre radici. E il gemito può farsi grido. Poesia dall’esuberante vigoria e tuttavia aerea e lieve nel tocco, pennellate dalle forti tinte che si alternano a subitanee aperture liriche, voli di una ricca fantasia e tuttavia misurati, modulati da una garbata ironia. Il gusto tutto popolare per la battuta, la chiusa arguta che esorcizza la morte nei vedovi “Margì” e “Batesta” si fanno verso pungente calato nel lirismo nei “Du bressà: ‘n òm e ‘na fotnna”. Poi il sipario d’evasione si chiude e il verso torna severo. Costante il partire dall’umano e ad esso tornare nel gioco ininterrotto di rimandi tra passato e presente per aprirsi infine. costeggiando le pieghe e le piaghe dell’umana vicenda a una valenza religiosa senza tempo. La parola dinamica non elude il mondo ma scava più oltre: la disposizione verso il reale è accolta dentro un ordine superiore. Non vi è posto per i dubbi ed enigmi e la poesia si fa tangibile con la sicurezza di una scelta irrevocabile : “Signur che te ghe sét e me ghe crede”. Viviamo nel mistero di un destino che non ci è dato da decifrare se non alla luce della fede dei nostri padri. Ma proprio nell’affiorare dell’istanza religiosa, la centralità dell’io-donna, che indaga il proprio essere, il proprio esistere di madre. ritrova gli accenti di un’epopea femminile nel proclamare, da una secolare vita-prigione, l’innocenza e l’orgoglio di un’assoluzione: “oh bianche ma de fomne e de caresse che le g’ha mìa tocètt i ciócc che t’ha n’ciodat” Donna-madre che vive e assorbe il partire con il pianto e il canto liberatorio : “a chela messa prima, sérem nooltre fomne che cantaa”. Catarsi e ritorno. Ritorno a un mondo che non è , qui si fa memoria perchè vi sia futuro. Ritorno alla baita a risentire “l’udur de lat, de fè madur, d mascarpina” ritorno definitivo agli affetti di sempre, al tepore poetico di un focolare dove “la stèla de ruer … la bruza abelaze nel foc de la ca”. settembre 1998 Vittorio Soregaroli