Narrativa

Da Bresciaoggi

Un mazzolino di verzulì, sonze dè galina e grasù. Una fascinella di urtiga, loèrtis e ligabosch. Così l’uomo «helvàdegh, come diceva nonna» conquista la sua compagn(i)a preferita, alla luce d’un falò, al canto del tarabuso. «Ho smesso di portare le mutande» (MarcoSerraTarantolaEditore) è la candida confessione di un quarantacinquenne ancorato al pratulì bresciano e disarcionato alle brache con fierezza rusticana. Pierpaolo Lombardi e il suo anti-prontuario di selvaticità stilano la way of life del nuovo sapiens, assolutamente non esportabile, fieramente indispensabile per riappropriarsi della raffinata bestia interiore. Siamo noi il nostro animale guida. L’autore non lo insegna, mostra come sperimentarlo. Lui, che non ha chiaro cosa voglia fare «da grande», che nell’ampio dossier esperienziale (magazziniere e progettista prima, facilitatore di yoga e taglialegna poi) colleziona calli, intanto muove meditando dalla Val di Taro a Zanzibar. Con le pubenda spesso slacciate, sì. Ma la sua voce contiene più di una profezia genitalica: «Ho “smesso” la mutanda anche da un punto di vista concettuale. “Mutanda” intesa come simbolo di costrizione, di contenimento di qualcosa che può esplodere, di sfiducia in ciò che siamo realmente». Contro al concetto di corpo-zavorra, opposto a tutto quel che non si può testare da sé e soprattutto disallineato ai dogmi, Lombardi coltiva l’imperfezione mediante la stessa delicatezza con cui da piccolo seminava camomilla, manipolava divinità nell’incenso e nella mota. «Abbiamo delegato a troppe persone la nostra vita», butta lì, cortesemente sfrontato. Poi, racconta dei passi compiuti per tornare al centro, alla libertà. I primi conducono al bagno. «Troppi profumi ci hanno confuso l’olfatto. E mi vien da pensare che in maniera similare non sappiamo neppure più annusare le situazioni, le persone». Allora si riformuli l’igiene, anzitutto: acqua fredda, il panetto di sapone qui e là, e mica sempre: quel che hanno chiamato odore in realtà è profumo, di nicchia, di Dna. Il passo verso la cucina è breve. Lo yogi rimastica l’educazione alimentare mettendo lo stomaco a dirigere il traffico esofageo: la carne sa, di quanta carne ha bisogno; non osa giudicar la ciccia, poiché la bellezza corporea ha il suo specifico sapore, accoglie pinguedine, peli, posture. Se «Giuda e Lucifero» erano tipi che lavoravano onesto&duro, il mestiere concettualizzato da Lombardi è ancor più diabolico. Perché attiene al tempo e alla totale sovranità del singolo, nel motto «fa’ quel che ti piace»; ma anche il contrario, se ciò dona i mezzi per il piacere. D’essere pure incoerenti. Schiettamente sfinterici – «caga fuori i rimproveri che ti fecero da piccolo, le cattiverie e le falsità che pensi degli altri». Accanto e dentro la «Tenda Selvatica», in un rimando di metafore e concretismi, la religio lombardiana accarezza nell’esoterismo il risveglio dell’io. Una consapevolezza schiaffeggiata e ruvida, sovra-culturale e para-sociale, per chi si mette «in ascolto». Possibile orecchiare un credo, certi pleniluni, cantilenato sulle note giudiziali degli Afterhours. È lui, accrocchiato su del basalto lombardo – paina, acqua di torrente, vino rosso «gnecco» – che ringrazia il bosco e ricorda con nostalgia l’alba a Varanas.

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